Rivista del Touring Club Italiano - Giugno 1954
Andare a Palinuro, oggi, è cosa agevole: una buona strada, quasi tutta asfaltata, conduce fino al paese e, per chi va in treno, vi sono a Centola, in coincidenza, comodi torpedoni. Ma non era cosi alcuni anni fa: chi non aveva una macchina doveva lasciare la ferrovia a Caprioli, e quindi cominciava l'avventura. Si tentava di avere un mezzo, telegrafando in precedenza all’albergatore, per avere una cavalcatura o una barca, ma spesso i pochi asini di Palinuro erano impegnati per i lavori agricoli, le rare barche erano fuori per la pesca, e allora non c'era che da fare a piedi i sette chilometri di erta mulattiera nel primo tratto e di spiaggia nel secondo. Fu precisamente così che vi andai la prima volta — e numerose altre, in seguito — spinto dal desiderio di risolvere un mistero archeologico: era esistita nell'antichità una città chiamata Palinuro? Il Cabinet des Médailles di Parigi, il Museo di Berlino e il British Museum di Londra conservano ciascuno un esemplare di una moneta incusa d'argento, della fine del VI secolo a. C., con la figura di un cinghiale, in corsa e con l'iscrizione: PAL da un lato e MOL dall' altro, che era facile ricostruire Palinuro e Molpa. Ma nessuno scrittore antico menziona due città — che avrebbero dovuto essere unite da un'alleanza per battere moneta comune — con questi nomi: Strabone e Plinio si limitano a ricordare il promontorio Palinuro, celebre per aver il nome dal nocchiero di Enea, che qui era caduto in mare e poi era stato ucciso dagli abitanti del luogo. II duca De Luynes, che era stato il possessore della prima delle tre monete, quella che oggi si conserva a Parigi, aveva finito col pensare che essa fosse falsa, e anche dell'autenticita delle altre due si dubitava.
Da Caprioli si vede in lontananza il Capo protendersi nel mare, simile a un gigantesco cetaceo, sulla sinistra la riva si eleva in una serie di basse colline sabbiose, su cui allignano le agavi e gli ulivi, le cui chiome sono sconvolte e piegate dalla forza del vento. A metà strada è una torre: una di quelle torri quadrate, frequentatissime su tutto il litorale salernitano, che furono elevate per far la guardia al tempo delle incursioni barbaresche, e perciò sono dette saracene. Da qui si vede il porticciolo di Palinuro, ben riparato dai venti del sud. Finalmente si arriva al paese, fatto di casette sparse su di un poggio, dominato da un'altura: la Tempa della Guardia, verde, ma spoglia di alberi. Più in là il promontorio, nella sua parte più alta è verde, ma in basso la roccia grigia è scoperta. Presso la riva è un ammasso caotico di rocce di gneis che hanno preso forme fantastiche, simili a quelle della lava raggelata nel mare in un paese vulcanico.
Per conoscere il Capo Palinuro è necessario farne il giro in barca, partendo dal porto o dalla spiaggia della "Ficucella". Solo cosi si può vedere quanto il Capo sia frastagliato e alla sua base perforato da grotte. Ecco la prima che c'invita a entrare da una grande apertura. La barca s'inoltra lentamente, e quando gli occhi si sono abituati alla luce della caverna, la sorpresa che si prova è grandissima. E’ una grotta immensa, la cui acqua ha una colorazione azzurra, come in quella di Capri, e tutto assume lo stesso colore: la barca, i remi, il barcaiolo che si tuffa. E il silenzio là dentro è completo; sembra di essere in un altro mondo, solo di tanto in tanto si sente un lieve sciacquìo dovuto al salto di un pesce. Usciamo e ritorniamo nel mare aperto e nel sole abbagliante, dirigendoci verso la punta del Capo che dobbiamo girare. Una parete di roccia alta un centinaio di metri incombe su di noi, verticale, oppressiva, minacciosa. Non si può fare a meno di pensare a quel che avverrebbe se una tempesta dovesse scatenarsi all'improvviso, giustificando il nome omerico di Palinuro, che significa Capo delle Tempeste: non ci sarebbe nessuna possibilità di approdo o di rifugio e la barca, come gia tanti secoli fa una flotta romana, andrebbe a sfasciarsi contro lo scoglio. Ma girata la punta, ecco uno spettacolo meraviglioso e grandioso che si presenta ai nostri occhi: in lontananza la costa fino alla Punta degli Infreschi, e alla nostra sinistra la parete rocciosa che si trasforma, che assume la forma di guglie dolomitiche, di finestre traforate nella pietra. Una piccola baia ha nel fondo un'apertura: ci addentriamo, e un'altra grotta, più piccola della precedente, ma anch'essa con riflessi azzurri e in cui l'acqua ha un acuto odore di zolfo: gli abitanti del luogo la chiamano la Cala Fetente. Più in là un'altra piccola Baia: è la Cala del Buon Dormire. Fra tre pareti di rocce altissime e una spiaggetta accessibile solo dal mare; la sabbia è finissima, l’acqua ha il colore dello smeraldo ed è immobile come una tavola. E’ impossibile resistere alla tentazione di prendere un bagno. Si ha l'impressione di essere i padroni del luogo, i fortunati proprietari di una spiaggia di sogno. Più avanti è uno scoglio, simile a un faraglione, che emerge dall'acqua con una forma strana che lo ha fatto chiamare lo Scoglio del Coniglio: veramente riproduce la sagoma dell'animale, accucciato e con le orecchie abbassate. Poco dopo, una stretta spiaggia è dominata da una larga e altissima parete rocciosa: è la Molpa, in cui si apre un'altra vastissima grotta, nelle cui stalattiti e stalagmiti sono concrezionate numerose ossa di animali preistorici, specialmente equidi e cervidi, e perciò è chiamata la Grotta delle Ossa. Poco più oltre un altro scoglio forma un grande arco naturale. Approdando qui, in questo silenzio, in quest'atmosfera che ricorda Virgilio e Omero, la fantasia si sbriglia: non era forse qui la sede delle Sirene? Molpa (che vuol dire canto in greco: Molpé) è il nome di una Sirena e forse la grotta delle Ossa è il prato biancheggiante d'ossa che ricorda Omero e lo Scoglio del Coniglio è la roccia su cui stavano le ammaliatrici e contro la quale andavano a sfasciarsi le navi dei naviganti che non avevano la saggezza dell'astuto Ulisse. Un pescatore subacqueo che riemerge per un istante ci fa credere a un'apparizione mitologica, ma ben presto ci richiama alla realtà: nei fondi marini non ci sono creature ammaliatrici, ma appetitose cernie e aragoste e grossi dentici.
Anche in terraferma l'atmosfera e un po’ irreale. In questo beato paese, in cui d'inverno nessuno porta il soprabito (veramente quest'anno non ne sono sicuro, ma altre volte, anche in gennaio il clima era primaverile), il ricordo dei tempi antichi è vivo in tutti. Non c'è contadino che facendo la scerponata (lo scasso per le vigne) non abbia rimesso in luce una buona quantità di tombe antiche: tutti hanno visto gli scheletri dei "guerrieri", e quasi in ogni casa sono vasi antichi. L'opinione comune è che si tratti delle salme dei naufraghi della flotta romana che la tempesta sbattè contro le rocce del Capo. Per un archeologo queste notizie erano un vero invito a nozze e con l'aiuto finanziario dell'Ente Provinciale del Turismo di Salerno fu dato inizio a una campagna di scavi, che ha rimesso in luce 53 tombe e ha accertato l'esistenza di una necropoli vastissima.
Tutta la parte settentrionale del promontorio è costituita da una serie di dune fossili, sabbiose, nelle quali sono state incavate le tombe, che sono a fossa e generalmente limitate da muretti di pietre a secco. Gli scavi hanno dimostrato che le tombe non sono di naufraghi, ma appartengono all'età arcaica e testimoniano nella maniera più chiara ed evidente dell'esistenza di un'antica città: la Palinuro delle monete. Molpa era sulla vicina collina, che ancor oggi conserva il nome antico. La cosa più importante e interessante è il fatto che tutta la necropoli risale a uno stesso periodo: la fine del VI secolo a. C, come le monete, per cui si può pensare che la città sia stata abbandonata immediatamente dopo. Le tombe sono generalmente ricchissime di vasi, e contengono anche oggetti metallici, specialmente fibule di bronzo e armi di ferro. I vasi sono indigeni e importati; questi ultimi sono greci, alcuni attici a figure nere, altri ionici con decorazione a fasce. La ceramica indigena comprende vasi grezzi, talora con decorazione plastica applicata — con figurine simili a quelle dei vasi ciprioti del II millennio a. C. — e vasi con decorazione geometrica. Caratteristiche sono alcune anfore, spesso di grandi dimensioni, di forma globulare, con alte anse a bastoncelli molteplici, la cui decorazione in rosso e nero comprende losanghe quadrettate, triangoli opposti al vertice, scacchiere ed elementi di meandro.
Vasi identici a quelli di Palinuro erano stati scoperti a Metaponto e in località del Vallo di Diano (Sala Consilina e Atena Lucana). La loro somiglianza con quelli del geometrico peucetico (Apulia centrale) è evidente, sia per la decorazione bicroma, sia per la forma globulare dei fittili, ma un rapporto più stringente con la regione peucetica è costituito dalle numerose fibule rinvenute, quasi tutte a doppio archetto, di una forma cioè, che finora era stata ritenuta esclusiva della Peucezia. Non è possibile non mettere in relazione questi fatti con la leggenda tramandata da Dionigi d'Alicarnasso, nel I libro delle sue Storie, secondo la quale Peukctos e Oinotros, figli del re d'Arcadia Lykaon, sarebbero venuti, il primo sulle coste adriatiche, e il secondo su quelle tirreniche d'Italia, dove ciascuno di essi sarebbe stato l'eponimo di un popolo. E’ noto che gli antichi chiamavano Enotria la regione — che poi corrispose alla "Lucania et Brutii" — dalla sinistra del Sele allo Jonio, e i rinvenimenti di Palinuro, messi in relazione a quelli di Sala Consilina, Atena e Metaponto, permettono di dar credito alla leggenda su riferita, nel senso che possiamo ammettere una comunanza di origine tra i popoli dell'Apulia centrale e della regione bruzio-lucana, e possiamo, sia pure per convenzione, chiamare enotria la civiltà indigena di Palinuro. Alla fine del VI secolo a. C. questa civiltà ci si rivela completamente sotto 1'influsso di colonizzatori greci, che dovevano essere di stirpe ionica, sia perché la ceramica non indigena è in assoluta prevalenza ionica, sia perché ionico è il tipo del cinghiale rappresentato sulle monete.
II fatto che tutto il materiale della necropoli di Palinuro appaia cronologicamente unitario, e che nulla si sia rinvenuto di più recente della data 530-520 a. C, fa pensare che la vita della città sia stata bruscamente interrotta da un evento, che potrebbe essere stato una pestilenza, che ha spopolato le contrade di Palinuro e dintorni. Tale evento e forse adombrato nei versi di Virgilio, come opinava il suo commentatore Servio (Eneide, VI, 378 ss.):
Nam tua finitimi, longe lateque per urbes
Prodigiis acti caelestibus ossa piabunt
Et statuent tumulum, et tumulo sollemnia
[mittent
Aeternumque locus Palinuri nomen habebit.
La pestilenza (prodigiis acti caelestibus), nel ricordo dei posteri era la vendetta divina per un efferato crimine, quale poteva essere l'uccisione di naufraghi.
Da questa è derivata la formazione della Leggenda dell’infelice nocchiero di Enea e non è improbabile che tale derivazione sia dovuta allo stesso Virgilio, il quale ha eternato il suo eroe con il suo poema, immaginandolo eponimo del luogo della sua morte, mentre in realtà è il luogo che ha dato il nome all'eroe.
Gli umili vasi d'argilla delle tombe hanno servito da filo conduttore tra la storia e la leggenda e hanno avuto il merito di rendere conosciuto uno degli angoli più belli d'Italia.
PELLEGRINO CLAUDIO SESTIERI
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