Rivista mensile della Consociazione Turistica Italiana - Febbraio 1939
I miei due amici erano indignati. Percorrere un centinaio di chilometri da Agropoli a Palinuro, attraverso il Cilento infuocato di sole e di cicale, su e giù per quelle sue tortuose valli e montagne, per giungere al misero paesino che ci vedevamo apparire davanti, sperduto sulla costa inospite, e dove, fra l'altro, non si trovava proprio nulla da mangiare!
Ma un d'essi, uno squisito umanista, era particolarmente furibondo perché un certo fascicoletto di propaganda, che avevamo portato con noi, vantava a Palinuro l'esistenza di un albergo e di un ristorante.
— Ma che ci canzona? - infuriava l'amico, guardandosi attorno. - Dov'è quest'albergo, dov'è questo ristorante? —
Il luogo, in verità, era assai modesto. Era uno dei tanti paesini salernitani con poche casette a un piano sparse lungo la strada che conduce alla marina, e dappertutto intorno agavi, ulivi, cicale e rocce, a perdifiato!
— Ma come si fa ad avere il fegato di lanciare una spiaggia in queste condizioni ? - urlava il giovane umanista, agitando il foglietto sul viso dell'unico oste del paese, il quale, confuso e terrorizzato li sulla soglia della sua osteria, non sapeva offrirci che un paio d'alici e un bicchier di birra.
Aveva tutte le ragioni. Ma io, che ormai ho dato passata alle baldanzose protervie delle gioventù e che, in genere, son sempre disposto a tollerare anche un po' di bluff, quando sia a fin di bene, - Aspettate! - dicevo. -Vediamo. Facciamo il giro del paese. . . Va bene, avranno esagerato. . . Ma in-fine è stato per buona volontà, per dare un po' di lustra al loro piccolo paese. Andiamo giù al mare e vediamo.
Quando fummo su l'orlo della limpida baia ci spogliammo ed entrammo in acqua. L'acqua era deliziosa di calma e di frescura. Poi mangiammo le poche frutta che per caso avevamo portato con noi. In conclusione, non dico che i miei amici rinsavissero e si convertissero alla bellezza di Palinuro, ma ammisero con me che il luogo, a suo modo, era bello e originale.
Inutile dire che io lo trovai senz'altro incantevole.
In realtà, su tutta la nostra costiera occidentale - che da San Remo al Golfo di Policastro non è, si può dire, che un succedersi disperato di carnovali marini - non è facile trovare una spiaggia più deliziosamente solitaria e poetica di Palinuro, più caramente dimenticata dal favore dei bagnanti, più vividamente espressiva di grazia ellenica.
Dopo un tumultuoso soggiorno a Capri, lo scenario di quella patetica baia solinga (vi si affacciavano appena un paio di casette di pescatori), dove la gloriosa natura meridionale parlava in tutta la sua eloquenza, dove una costiera di belle piagge solatie, che la fiancheggiavano a nord, calava sul mare solitari ammanti d'ulivi e di lecci con un garbo e un piglio propriamente omerici, era giunto propizio per darci l'immagine di uno di quei luoghi di cui si ha sempre un po' nostalgia quando si vive a lungo su spiagge frequentatissime; di una natura libera e primordiale, senza cabine e senza jazz; di un paese marino lasciato vivere in tutta la gloria della sua spontaneità, abbandonato interamente al suo genio naturale creatore di miti e di colori.
Ho poi sempre osservato che là dove la storia e il mito son passati, anche se non visibili in segni particolari, un'aria e come un effluvio della loro presenza permane indelebilmente negli aspetti e nel clima del luogo. In quel seno, Palinuro, il fido nocchiero d'Enea, era giunto nuotando, dopo essere stato precipitato in mare dal dio Sonno, e aveva lasciato la vita ucciso per mano dei nativi.
Con tutta modestia, adunque, questo borgo costiero tiene il suo posto d'onore nella vicenda della storia d'Italia. Col sacrificio del fedele nocchiero compiutosi in quel punto, l'italo seme potè raggiungere Roma e creare il destino di nostra gente.
Onore adunque a Palinuro, anche se le sue condizioni alberghiere sono così modeste.
Curioso l'aspetto generale dell'istmo che si proietta davanti a lei, sul mare. Un alto e brullo promontorio, in cima al quale è il faro e il semaforo, racchiude la piccola baia dalla parte di tramontana, formando la una gobba gigantesca, simile a quella di un immenso cetaceo che vi si fosse arenato: ed è appunto sull’estremità di quel promontorio che si trova il tumulo, il quale, secondo la tradizione, sarebbe quello dove il buon nocchiero fu sepolto.
La costa, in genere, è tutt'attorno rocciosa e grottosa. Caverne, infatti, ve ne sono parecchie, di cui talune meritano di esser visitate. C'e, per esempio, una Grotta delle Ossa, dentro la quale s'incontrano, dicono, ossa d'animali ed anche umane, ed è forse la stessa a cui Virgilio allude nel Libro V dell’Eneide, a proposito appunto dell'episodio di Palinuro, quando ci dice che la nave d'Enea era giunta agli scogli delle Sirene:
scogli perigliosi un tempo
A' naviganti: onde di teschi e d'ossa
D'umana gente si vedean da lungi
Biancheggiar tutti.
Poi c'è una «Grotta del Buon Dormire», così chiamata perchè sembra che alcuni forestieri vi abbiano passata la notte in perfetta tranquillità; un'altra detta «del Marmo», dai bei riflessi azzurrini; e infine una piccola cala che chiamano «Fetente», per l'odore di acido solfidrico che vi esala un corso d'acqua strisciante sotto il livello del mare.
L'episodio di Palinuro, nel quinto e sesto Libro dell’Eneide, è fra i più umanamente patetici del Poema.
Palinuro era il «provvido nocchiero» della nave d'Enea, il suo fedele nostromo. Una notte in cui, sotto la vigilia di Nettuno, la nave veleggiava tranquillamente verso l'Italia, giunto all'altezza del promontorio, mentre stava governando il timone, Palinuro, assalito da un profondo sopore, provocato in lui dal dio Sonno, precipita in mare abbrancato al suo timone e scompare nelle onde. E non di meno l'armata continua il suo corso,
che Nettuno stesso,
Come promesso avea, la resse e spinse.
Più tardi, giunto a Cuma, Enea, per invito della Sibilla, scende in Averno a ritrovarvi il padre Anchise, e arrivato sullo Stige, incontra per primo Palinuro in mezzo allo stuolo delle anime a cui non è concesso traghettare il fiume, perché i loro corpi sono rimasti in terra insepolti. Enea chiede allora al suo nocchiero come mai fu gittato in mare, e perché e qual Dio lo tradì, e Palinuro gli risponde narrandogli le vicende della sua morte. Caduto in mare, per tre giorni e per tre notti intere errò a nuoto qua e là, finché al quarto giorno approdò a terra italiana. Ma, sfinito di forze, stava per aggrapparsi allo scoglio, quando sopraggiunse un branco di nativi, «ignara e fera gente», che a mazzate di ferro lo uccisero.
Or lungo ai lidi
Vassene il corpo mio ludibrio ai venti,
E scherzo ai flutti.
E prega Enea che, tornato in terra, faccia ricerca del suo corpo per la spiaggia di Velia e gli dia sepoltura: poi gli chiede un po' d'aiuto per esser traghettato di là. Ma la Sibilla lo vieta. Per ora egli non potrà essere traghettato, ma stia certo che verrà tempo in cui la terra nella quale egli naufragò e dove lasciò la sua spoglia mortale, costretta dalle pestilenze e dai prodigi, raccoglierà con solenni sacrifici le sue ossa e gli darà esequie e tomba.
Questi paesaggi meridionali si direbbe che appaiono tanto più belli quanto più vengano
lasciati vivere a lor talento, quanto meno vengano disturbati dalla presenza dell'uomo. Palinuro, dove pochi sono i nativi (credo che faccia poco più di settecento abitanti) e pochissimi i forestieri, a cagione della difficoltà di arrivarvi, possiede aspetti e motivi umani e paesistici che mi sembrano tra i più originali i perfetti di tutto il Cilento.
Donne e ragazze che qui, come in gran parte dell'Italia Meridionale, portano in testa orcioli camminando con passi lenti e misurati, hanno una bellezza da fregio greco. Spesso le ragazze han vesti accesamente rosse che squillano tra il verdegrigio degli ulivi, come piccole fanfare di colore. Gli uomini cavalcano, magari in due, asinelli magri e briosi. A Camerota le donne lavorano le corde di asfodelo per la pesca delle cozziche.
Un'usanza curiosa a Palinuro, che è comune a tutto il Cilento, son certe processioni che si fanno in onore della Madonna per qualche grazia ricevuta o per buon raccolto o buona pesca, o altro. La funzione, senza preti, e aperta da alcune ragazze che recano alti sul capo fragili e fantasiosi trionfi di tela o di carta bizzarramente fioriti a grandi corolle stellanti e spesso di piccole barche. La chiamano la «Centa». Donne e uomini procedono tutt'insieme per la strada, cantando inni alla Madonna, spesso accompagnati dalla banda. Portano quei loro trionfi in chiesa e li depongono in omaggio sull'altare.
Piacevole è percorrere questi dintorni marini, così aspri e soleggiati, che hanno, direi, ampiezze sinfoniche nei loro scenari. E’ consigliabile una attraversata dell'istmo per giungere sino a Molpa, al di là del promontorio. La strada corre sempre in mezzo agli ulivi, discende nel letto di un ruscello tra rocce calcaree, e conduce ad una piccola cala, una spiaggetta arenosa, tra il promontorio e la foce del fiume.
Dirimpetto è la Pietra o Scoglio della Marina. II luogo è bello e strano. Al di là della foce del Lambro (il Melpio degli antichi) si innalza un colle assai dirupato, oltre il quale è la foce del Mingardo, il fiume che, col nome di Pruno fino a Colarito, nasce sotto la Croce di Pruno. Nella pianura retrostante, fra i corsi dei due fiumi, sorgeva un tempo la città di Molpa, fondata, secondo Diodoro Siculo, nel 470 a. C, c dove è fama si ritirasse l'imperatore Massimiano Erculeo dopo la rinuncia all'Impero. Vuole poi la storia che Molpa fosse stata presa dai Goti, ripresa da Belisario, saccheggiata dai Saraceni nel 1113 e abbandonata al principio del '400. Le vestigia di un castello in vetta al colle attestano ancora dell'antica guerriera grandezza dei luoghi.
Le fotografie che illustrano questo mio articolo sono di un artista dell'obiettivo, che, come me, ha sentito tutto il fascino e l'incanto indescrivibili di Palinuro.
Le donne che, lungo gli scogli della Molpa, vanno alla pesca dei polipi; la grazia severa, imperiosa e quasi sofoclea di certi visi di vecchie; i lavori agricoli su per le coste di Sant'Agata o di Trivento; la raccolta delle ulive o le faticose arature in mezzo ai lecci; le belle lavandaie o le funaiole di Camerota; i fanciulli che suonano il flauto alla maniera degli antichi pastori, così belli di corpo, così ricciuti e bruni, e le gagliarde anforete dal tipo saraceno. . . questa terra dispiega all'osservatore infinite e mutevoli immagini di vita schietta e solatia, che fortunatamente l'età moderna ancora non ha sfiorato con la sua inutile furia.
Nello scendere da Centola a Palinuro un uomo ci chiese un passaggio sulla nostra macchina. Lo pigliammo su. Era un tipo abbastanza chiacchierone e bene informato delle questioni del luogo. Diceva, forse esagerando, che Palinuro è un povero paese tagliato fuori da ogni via di comunicazione e che perciò non potrà mai diventare una spiaggia frequentata, nonostante tutte le sue bellezze. Manca una via d'accesso dalla costa, continuava a dire. La ferrovia che viene da Salerno si arresta disgraziatamente poco dopo Pisciotta, e Palinuro, con la penisola di Camerota, sono interamente isolati sul mare.
— E perché non fate questa strada costiera? Qui il bravuomo mise fuori le solite difficoltà amministrative, i soliti contrasti fra paese e paese; difficoltà e contrasti che oggigiorno, in regime fascista, si possono facilmente superare.
Però, dico il vero, in cuor mio benedissi quei contrasti e quelle difficoltà che permettono di lasciar intatti, almeno perora, la bellezza fragrante di Palinuro e il suo fascino antico.
CARLO LINATI
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