Rivista mensile del Touring Club Italiano - Luglio 1970
Pochi chilometri a sud di Salerno, pochissimi da Paestum, una lunga barriera di monti piegantisi verso il mare segna l'inizio del Cilento, una terra di contrasti non cancellabili alla memoria, chiusa e difficile nella sua parte più elevata, scavata da innumerevoli corsi d'acqua in una solitudine solo qua e là rotta da paesi antichissimi arroccati sulle cime delle montagne, aperta, ridente, un susseguirsi di colori ora tenui e ora intensissimi in una gloria di luce che fa più vicino il ciclo, sulla costa, e rende più profondi il silenzio e la pace delle sue marine. E un contrasto esiste anche sui confini geografici da attribuire a questa terra: il cui nome figura per la prima volta in un diploma del principe Guaimaro di Salerno del 994, suggerito dai Benedettini che lo avevano assegnato alle montagne e alle valli al di qua dell'Alento (Cis Alentum\ mentre per l'asceta Filippo Rizzi il Cilento "è quel tratto di paese che comincia dal fiume Sele e si estende fino a Sapri". E questa è in fondo la versione oggi correntemente accettata. E’ sopra Paestum infatti che inizia il Cilento, questa zona semisegreta compresa tra il mar Tirreno, dal Golfo di Salerno lino al fiume Sele, al Golfo di Policastro fino al fiume Busento, il massiccio dell'Alburno a nord e il Vallo di Diano a est.
Pure al viaggiatore non frettoloso e attento non si pone il problema di una scelta di strade, tra la Tirrenia Inferiore, che da Battipaglia porta a Sapri attraverso Vallo della Lucania inerpicandosi sul dorso di decine di monti, e la provinciale costiera che da Paestum raggiunge Agropoli e oltre Agropoli rincorre, attorcigliandosi o distendendosi, ora su uno strapiombo marino ora sulla sponda di un torrente, paesi, torri e castelli messi a guardia di valli e spiagge che i Greci scoprirono cinque o seicento anni prima di Cristo, e che oggi ci tocca riscoprire per il secolare dominio di signorotti locali che strenuamente difesero i loro possedimenti da ogni influenza esterna e per l'incuria dei passati e più recenti governi che abbandonarono al suo difficile destino questa "terra di tristi", come ebbe a definirla la polizia borbonica. Perché gli basterà seguire il naturale istinto che lo porta verso più aperti spazi, verso la luce e lo scintillio del mare, per trovarsi di fronte (poiché la strada che segue s'avvicina e s'allontana continuamente dalla costa, toccando villaggi di pescatori, insenature e spiagge immerse in colori nuovi per chi conosce ormai solo il volto e il senso delle città e dei luoghi di villeggiatura più famosi e artificiali, e volgendo poi improvvisamente le spalle a quei colori per salire verso altri più cupi e densi e non meno meravigliosi), a entrambi i volti di questo Cilento sconosciuto, sino a qualche anno fa e ancor oggi tagliato fuori dalle correnti di maggior traffico commerciale e turistico e quasi sfuggito per una tradizione di dicerie, come quella borbonica citata innanzi, dovuta alla più perfetta ignoranza dei luoghi e del carattere del popolo che quei luoghi abita. Volendo dunque seguire questo itinerario, che diremo costiero solo per comodità di distinzione, il turista che avrà deciso di andare oltre l'ormai frequentatissima Paestum per l'incanto dei suoi Templi e della spiaggia, volterà a destra e si troverà poco dopo di fronte all'imprevista visione di un luminosissimo e ampio arco azzurro del Tirreno, incorniciato dal verde intenso degli aranceti qua e la rotto dal rosa degli oleandri sparsi a centinaia sulle colline, sul quale domina, dall'alto del suo castello, Agropoli, uno dei maggiori centri del Cilento, a soli 51 chilometri da Salerno, 105 da Napoli. La strada tocca la stazione di Ogliastro con la sua breve spiaggia (ma questa è solo la prima, troveremo un'altra Ogliastro Marina più avanti), poi una fila di linde casette lungo la spiaggia di San Marco (e anche di San Marco ce ne sarà un'altra) finchè si supera il fiume Téstene e ci si trova nel centro della cittadina.
A questo punto si è ormai a contatto di quello che è il carattere ambientale del Cilento, un misto di montagne e di marine di una bellezza qua delicata là selvaggia, ma in entrambi i casi intatta, con case e paesi quasi mimetizzati nel paesaggio e che raccontano storie antichissime.
Un ambiente dal cui fascino, una volta attratti, non è possibile liberarsi se non dopo aver saziato una curiosità sempre più stimolata con il trascorrere dei chilometri e essersi convinti di una realtà attuale; di un mondo che viene fuori in questi nostri giorni quasi direttamente dalla luminosa civiltà della Magna Grecia, dalla baldanzosa furia conquistatrice dei Normanni, dalle scorrerie dei Saraceni, dalle assurde spoliazioni di un feudalesimo gretto, difensore accanito dei propri privilegi contro ogni innovazione, contro ogni influsso esterno. Per tutti questi motivi non si può fare a meno di abbandonare al più presto la nuova Agropoli, distesa tra il Testene e il mare, per salire, attraverso la nuovissima via Rossi, e in un imprevisto succedersi di visioni panoramiche, al cuore della greca Acropolis. Al centro della quale sorge il Castello, " ‘O Palazzo ", come lo chiama la gente che vi vive attorno, in mezzo a un dedalo di viuzze, di archi e di scalinate su cui si aprono improvvisi ampi cortili fioriti, cui non giunge neppure l'eco più fievole d'una voce o d'un lontano motore e che sembrano abbandonati.
Questo castello, che meriterebbe sorte migliore e maggiori cure dalle autorità competenti, fu costruito intorno all'anno 566, durante il periodo della dominazione bizantina in Italia, e dalle sue torri i soldati di Narsete signoreggiarono tutta la terra del Cilento; e dalle sue torri, per 146 anni, dall'882 al 1028, i Saraceni dominarono e spogliarono, sino a renderla un deserto, la fertile piana del Sele; e da quelle stesse torri gli agropolesi, il 29 giugno del 1630, sostennero vittoriosamente l'assalto dei Turchi. Posseduto a volta a volta da numerosi feudatari, dal conte Giordano al re Ladislavo, dai Sanseverino a Rodrigo d'Avalos, dal vescovo di Capaccio al principe Grimaldo di Salerno, passò nel 1660 ai duchi di Sanfelice e da questi allo Stato che lo vendette alla famiglia Del Vecchio; e questa, a sua volta, lo cede ai Merola di Agropoli che oggi lo posseggono al solo scopo, a quanto pare, di farne coltivare il fosso e il cortile interno da una famiglia di contadini. Non basta, difatti, dopo aver lasciato la macchina a una certa distanza, arrampicarsi su per una stradetta sconnessa e ciottolosa fin sopra il bastione esterno per poter entrare nella rocca. Giunti davanti al portone d'ingresso, ci si avvede che il ponte levatoio è crollato e che non v'è altro modo per raggiungere le torri che quello di tornare indietro per cercare di attraversare il fossato, coltivato a fave e alberi di fichi, ma per far ciò è necessario che si apra un cancelletto praticato nel bastione esterno. II cancelletto è chiuso a catena e bisogna attendere un bel pezzo perché qualcuno dei coloni dei Merola, d'altronde gentilissimi nel fare da guida, si decida ad aprire. E’ una fatica che mette conto compiere. Una volta all'interno si può percorrere il camminamento che serpeggia sulle mura che congiungono i tre torrioni coperti di edera e di erbe selvatiche e di lì ammirare, verso nord-ovest, l'ampio Golfo di Salerno, da Agropoli a Capo d'Orso, a nord l'intera piana del Sele e la zona di Paestum e, più lontano, il monte Soprano e i luminosi picchi degli Alburni, a est il verde massiccio del Cilento con le vette del Raialunga (1405 m) e del Cervati (1899 m).
Siamo ridiscesi dal Castello dei Sanfelice alla moderna Agropoli per raggiungere la spiaggia di Trentova per la nuova strada panoramica aperta sul costone della collina a ovest della città. E’ una strada di cui gli agropolesi vanno molto fieri per le aperture panoramiche che offre sull'abitato e sul porticciuolo affollato di barche di pescatori, e su quell'enorme scoglio proteso nel mare su cui è costruita l'antica Acropolis e che lascia intravedere, nella trasparenza delle acque, azzurrissime caverne; e perché essa costituisce l'inizio di quella lunga strada costiera che aprirà al Cilento imprevedute prospettive turistiche. Oggi è ancora, purtroppo, una non comoda carreggiata che passa accanto all'antico Convento di San Francesco e alla torre che lo fronteggia, quasi a sua difesa, sull'alto scoglio di fronte al mare.
Così la ricerca di una spiaggia, distesa ai piedi d'un ampio degradare di colline verdissime su cui brillano macchie lucenti di fiori rossi, chiusa tra Punta Tresino, dietro la quale si nasconde l'altra spiaggetta di Sambuco, e uno scoglio bianco da cui un ragazzo immobile protende la sua canna da pesca, si fonde e si confonde nella storia e nel misticismo non cancellato dal volto di questa terra silenziosa.
A Casa Sambuco termina, per ora, la strada costiera. Ci si interna, allora, da Agropoli, verso le pendici del monte Stella, prima salendo tra un'infinita serie di campi coltivati a grano, di piccoli appezzamenti di terra che l'uomo ha tenacemente strappato ai sassi e agli sterpi con mezzi ancora oggi rudimentali tramandati attraverso una lunga serie di generazioni, poi dolcemente calando verso la costa sino a raggiungere l'abitato di Santa Maria, che è la frazione marina di Castellabate, alta sulla sua montagna a guardia delle terre e del mare che la circondano.
Santa Maria appare subito, per la quiete che vi regna, un luogo ideale di riposo, con le sue stradine e le sue scalinate raccolte di fronte alla scogliera a difesa della piccola rada e ricche di scorci imprevisti, e un silenzio, dalle case, che stupisce chiunque abbia avuto modo di ascoltare il vociare scomposto di tante località del Mezzogiorno; con qualche segno di vita soltanto nel passo lento d'un pescatore che s'avvia a cominciare la sua giornata o d'un altro che l'ha appena terminata, e nella piazzetta, dove alcuni vecchi emigranti si raccolgono nei due caffè a consumare i propri risparmi chiacchierando con i giovani che ignorano le meraviglie del Nuovo Mondo. Siamo già qui in presenza dell’anima più vera del Cilento, un'anima raccolta, piegata a un difficile lavoro sulle colline brulle che non danno abbastanza per le famiglie, tutta mediterranea e quasi ferma in un'estatica immobilità, come il paesaggio stesso sulla costa sotto l'impeto della luce che un mare estremamente terso raddoppia abbacinando, eppure pronta ad aprirsi al nuovo venuto, ad accogliere la sua voce e il mondo che quella voce rispecchia.
Questo gruppo di case silenziose (vi è anche un alberghetto di quarta categoria) sta, con la sua scogliera di protezione, proprio al centro di un lungo arenile, che è cosi diviso in due spiagge dalla sabbia profonda e finissima. Quella a destra, verso nord, in contrada Lago, prende il nome di Fiume; più piccola, ma più prossima all'abitato l'altra, verso sud, chiamata Pozzillo, di una bellezza suggestiva che ferma l'occhio e lo avvince nell'ansia di poter abbracciare uno degli scenari più belli che sia dato vedere, con un groviglio di pini secolari qua svettanti arditi e poi curvi e quasi rossastri, che pende su di essa dall'alto della collina onde domina il paese di Castellabate, guardando lontano, verso punta Licosa.
Anche da qui, per giungere a Licosa, la strada, ora molto più agevole, segue la costa solo per alcuni chilometri fino alla marina di San Marco, un gruppetto di case sullo sfondo di altre colline d'un verde più scuro, con davanti il porticciuolo in cui stanno immobili alcuni pescherecci, e prima del porticciuolo un arenile quasi nascosto, un miscuglio di sabbia e di rocce sfaldatesi alla collina in una sonnolenza incantata. Pini, agavi, siepi di fichidindia radicati su piccoli promontori riparano dal vento le casette colorate affacciate sui campi. Poi bisogna ritornare verso 1'interno, girare attorno all'intero promontorio di Licosa, toccarne il fondo meridionale, ove stanno adagiate in lunga fila le venti case di Ogliastro, davanti a una lunga spiaggia che il sole del pomeriggio rende più invitante e dolce, fermarsi a un cancello che chiudeva, fino a un anno fa, la tenuta del principe di Belmonte e qui chiedere a un guardiano il permesso di entrare, per poter giungere a quella che era un tempo la dimora estiva del principe.
Sull'estrema punta che la leggenda adorna della presenza della ninfa Leucosia, alcuni resti di mura intrecciate d'edera contendono lo spazio a sterpi e erbacce che quelle antiche pietre difendono dall'impeto del maestrale. Sono ruderi d'una delle cento torri che vigilano lungo le coste del Cilento o i resti d'una antica città eretta in onore della ninfa, come afferma la mia giovane guida, un conta-dino di Ogliastro felice di accompagnarmi per la novità di questo crepuscolo che gli risparmierà un'ora di noia? Mi spiega, mentre stiamo ritti su un troncone di mura, che nelle giornate calme in cui queste acque del Tirreno si fanno trasparenti per accogliere i raggi del sole fino alle più difficili profondità, è possibile vedere l’antica Leucosia distesa tra la punta e l'isolotto di Licosa, e non è raro che il pescatore subacqueo (un ampio banco di sabbia rende questo specchio di mare particolarmente adatto alla pesca) risalga alla superficie recando anfore nelle braccia grondanti acqua come gli antichi efebi sudore nel faticoso trasporto.
Ora la sera che si approssima impedisce una tale scoperta, qualche leggera nuvola ombreggia qua e là la superficie del mare, poi si carica dell'ultimo rosseggiare del sole al tramonto e quel rosso riverbera sull'ampia curva di acque in fondo alla quale Santa Maria di Castellabate stende le sue lunghe spiagge, accende Punta Tresino, e tutto il Golfo di Salerno, lino ad Amalfi e ai faraglioni di Capri, sembra addormentarsi in una coltre di porpora che le sorelle di Leucosia hanno disteso per la loro meravigliosa notte.
Da Ogliastro a Casal Velino, per oltre trenta chilometri, corre quella che è certamente una delle strade più panoramiche della Campania, lungo una riviera non seconda a nessuna. Qui si afferra finalmente, e se ne ha una riconferma riandando con la mente alla strada percorsa, la caratteristica peculiare di questa costa cilentana: un susseguirsi continuo di ampi archi di mare chiusi alle due estremità da alti monti, e dentro di essi una successione più numerosa e varia di cale limpidissime, di spiaggette assolate sulle quali incombe, quasi sempre, la parete fiorita d'una montagna.
Tra una sosta e l'altra su un promontorio turrito, su una roccia, su un declivio cosparso di olivi e di vigne, le ore trascorrono veloci alla scoperta d'una natura intatta che ha impresso il suo marchio di pace sull'anima stessa degli abitanti e sul volto ridente e pacato dei piccoli centri costieri, scoperti all'improvviso dall'alto, in una curva della strada, quasi mimetizzati nel sole, nel cielo e nei monti. Ecco, oltrepassata Ogliastro, Agnone, a settantatre chilometri da Salerno, con la sua piccola spiaggia a rifugio di barche operose. Di Acciaroli, sempre scendendo verso il sud, si scorge dapprima la lunga, curva spiaggia, poi le case allineate lungo la strada provinciale, tutte costruite, ad eccezione della Torre del molo e della chiesa dell'Annunziata, con pietra di mare sugli scogli che affiorano lungo la riva. Di qui, forse, il nome dell'ottimo alberghetto della cittadina, lo "Scogliera", dove Hemingway ha riposato e lavorato per lunghi mesi e ripetutamente.
Non dissimile è Pioppi, anche se più piccolo, una trentina di case sulla strada provinciale a pochi metri dal mare: tutte intonacate e colorate nell'intonazione tipica del paesaggio mediterraneo e tutte adorne di fiori, come fiorita è la piazza, un piccolo slargo alberato con terrazza a mare, dove i pescatori anziani vengono a mirare le barche che non possono più accoglierli.
Di fondazione più recente appare invece Marina di Casal Velino e ciò fa pensare, anche per una maggiore attività di commercio minuto che vi si nota, che in questi ultimissimi anni si sia proceduto a fabbricare case e villette a uso di villeggianti di fronte a un arenile che di qui si distende per circa quindici chilometri in una lunga curva biancheggiante, fino a Marina di Ascea (vi si giunge zigzagando nella piana dell'Alenco e toccando le rovine di Velia, l'antica Elea di Senofane e dei suoi discepoli Parmenide e Zenone), dove la spiaggia si allarga e la sabbia si accumula sino a raggiungere certe stradicciole silenziose a un paio di centinaia di metri dal mare, su cui si allineano numerose villette racchiuse in orti ombreggiati da magnifici alberi di fichi. Una pensione unita all'amenità naturale del luogo dovrebbe permettere lo sviluppo del turismo.
Da Marina di Ascea si ritorna alla provinciale e si sale verso Ascea. Dall'alto il mare ha trasparenze mirabili lungo tutta la costa fino al promontorio dietro cui si nasconde Marina di Pisciotta, che appare all'improvviso, accoccolata ai piedi dei monti dinanzi alla sua spiaggia, diciassette case in tutto, un piccolo bar sul cui uscio una guardia di finanza tiene in braccio il suo bambino, sulla strada a mare un autocarro venuto sin qui dalla piana del Sele a vender mele e pomodori.
Ed ecco Palinuro. I francesi l'hanno ormai resa nota, non solo agli italiani ma all'Europa tutta, e riparlarne può sembrare quasi inutile. Ma come ogni ascoltatore scopre in una musica cento volte ripetuta accordi e accenti nuovissimi, così Palinuro offre la bellezza della sua molle curva marina alla riscoperta d'ogni nuovo visitatore e l'argento del suo mare diventa un dono indimenticabile. Non importa da quale punto ci si metta: gli scorci che il promontorio di Palinuro crea con la costa che gli si allunga sui fianchi e l'immediato retroterra, con angoli di mare che qui ripete le azzurrine trasparenze di Capri in una continuità di leggenda tra le sirene dell'isola e l'assonnato nocchiero di Enea, restano tra le visioni indimenticabili nella vita d'un uomo. Orti folti di olivi sulle colline che scendono a riva, lunghe spiagge dalla sabbia calda, le rive del Lambro e del Mingardo: la natura è come una meraviglia difesa da un'arcadica arretratezza. Se la bellezza e la mite, estatica presenza del Mediterraneo sono un dato incontestabile su cui e radicata la civiltà umana, questo mare è qui certamente al suo fulgore e parlare di incantesimo è troppo poco e troppo facile. Palinuro dovrebbe essere descritta non con parole ma con un gesto, forse abbozzando le flessuosità d'una figura umana perfetta, forse con una carezza.
Da Palinuro si va a Marina di Camerota risalendo a Centola e lasciandosi alle spalle la lunga valle del Lambro per immergersi, dopo aver attraversato una galleria, entro la valle del Mingardo. Ci ritroviamo qui (la solitudine a volte sgomenta) dinanzi all'altro volto del Cilento, quello che la molle bellezza della curva di Palinuro ci aveva fatto quasi dimenticare, e che ora ci riappare in tutta la sua primordiale schiettezza. Qui è il paesaggio aspro, montagnoso, il terreno che sale con rapidità tra due pareti di roccia quasi a picco entro cui il fiume scorre rapido e limpido, striando di azzurro una terra d'un colore bruno-giallastro nel quale erbe e pietre si confondono in un'uniformità rotta soltanto da qualche macchia di olivi e, improvvisamente, dalle dorate pareti del monte Bulgheria. Ed è lungo le pendici di questo monte che si scende verso Camerota, indi a Marina di Camerota, un variopinto gruppo di case fasciato da una ampia distesa di alberi e guardato dalle torri dell'Isola (per l'isolotto bellissimo che le sta di fronte), del Poggio e dello Zingale e dai ruderi di una taverna medioevale. Tra Palinuro e Marina di Camerota, e tra questa e Scario, si scoprono spiagge e cale innumerevoli che solo la guida di un pescatore locale può far individuare. Scendendo dalla lunga e splendida spiaggia del Mingardo, cui si accede in barca, o a piedi da Palinuro, si incontrano in successione la piccola insenatura detta di Porticello, orlata da arenile, la spiaggetta di Arconte, con l'omonimo palazzo, e quella della Calanga, fronteggiata da un isolotto. Immediatamente a sinistra di Marina di Camerota ancora due spiagge, quella di San Domenico, più piccola e adibita al riparo delle barche, e l'altra, più lunga e ampia, detta Lentiscella, incurvantesi verso la Torre dello Zingale. Fra queste due spiagge, due grotte che hanno attirato di recente l'interesse degli speleologi, in particolare la Grotta Sepolcrale, in cui sono stati rinvenuti resti umani del periodo neolitico.
Dopo la Torre dello Zingale, le cale e le spiagge, piccole insenature dove l'acqua si adagia in riflessi di smeraldo, si fanno più numerose: Cala Fortuna, spiaggia Pozzallo, Cala Bianca, cosi chiamata per via del candore dei suoi ciottoli, il porticciolo naturale degli Infreschi con poche case attorno alla chiesa di San Lazzaro, poi il lungo arenile di Margellina. E ancora, la spiaggia di Resina, il Vallonciello, la Punta dell’Uomo, Cala Carcarella, la spiaggia di Molara, quella delle Due Marinelle, e grotte meravigliose incuneantisi tra le rocce strapiombanti a mare, la grotta dell’Acqua, quella dei Palombi, la grotta dei Nomi.
E siamo a Scario, ultima tappa del nostra lungo itinerario. Viene prima la cala di Garigliano. E’ questa una breve conca tranquilla, difesa sulla destra da una sporgenza massiccia, a sinistra da un promontorio più basso e piano con alle spalle verdi colline coperte di olivi, tra cui biancheggiano, sorvegliate dall'alta Torre Spinosa, alcune estatiche casette. Qui, in quest'angolo di pace intensa, lontano da ogni rumore e da ogni fastidio umano, dove persino i venti sembrano tacere, il Touring Club Italiano ha organizzato un Campeggio sociale, provvedendo anche ad allacciare il luogo con la strada comunale che conduce al paese, bellamente allineato su un'ampia arteria lungo il mare, chiusa in fondo dalla facciata della chiesa dell'Immacolata, quasi maternamente a guardia di coloro che lasciano il lido sulle barche e di quelli, più deboli, che restano. E dietro la chiesa altri promontori e colline e torri, l'ampio, azzurro Golfo di Policastro, un breve guizzo di Sapri, e ancora passato e presente, storia e mito che si fondono nella prima foschia che la sera vicina manda dal mare verso i monti più alti.
SALVATORE REA
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